Solo

Solo sei
quando la vita ti prende
Nel grido di pianto
si intende
la tua ignara paura di vivere

Cammini
Corri  e Insegui
Cerchi 
Elemosini e Chiedi
Solo
se monca è la mano
che tendi al fratello
Solo
se arida è la bocca
ansiosa di baci
Solo
se muto batte il cuore
sordo all’ascolto
Ma quando
con pale d’Amore
riempi quel vuoto glaciale
scopri e gioisci d’incanto
che Solo
nel mondo
non sei

Solo sei
quando la vita ti lascia
Nella tua ultima umana battaglia
di morire hai
cosciente paura

Là nelle piazze
le folle condannano
le folle plaudono
Uomo sei Solo
se ti fai buio
Uomo sei Solo
se ti fai luce
Senza gridare e senza piangere
Solo il Silenzio ti onorerà

L'uomo nuovo

Non ho più bisogno di chiedere
il consenso
che mi cinge di alloro
il rispetto
che da solo mi devo
e l’amore
che vive di sé
Né il denaro
che riempie le tasche
ma ruba nel cuore
o il potere
che incurante calpesta
l’indifeso altro da me
Già ho subito le schiaccianti sconfitte
il dolore, la sofferenza
di chi ha preteso rincorso pregato
pensando che su ogni tavola
avrei poi trovato
una fetta
di felicità

Ho girato la roulette dell’anima
sordo un colpo dal profondo è partito
ha colpito, ha ucciso
il questuante dentro di me

Non più schiavo
dei lacci del chiedere
Libero
intono una nuova canzone
Solo ho bisogno di dare
unica azione
nella quale fondare il mio credo
la leggera voglia di andare
trovando ristoro alla sete
dell’unica vera
felicità

Dentro

Le mani sul volto
chiusa nel sé
Lo sguardo alle palpebre
cortine abbassate
sul mondo che appare
che è
distratto alla luce
al vero celato
sotto sabbie che putride e mobili
scivolano. Perché
c’è più aria
respiro speranza se cerco
dentro di me?
Mi sforzo nel buio
abisso interiore
mi abbandono, si apre
un foro di azzurro
intenso per me
Risalgo precipito
si spande mi avvolge
non cado galleggio
dentro e fuori di me

I sensi infiniti
l’azione nei verbi
posso uscire da me

Note d’amore

Vorrei non mancarti
perché sono
anche nel vuoto
Vorrei non parlarti
perché sono voce
anche nel silenzio
Vorrei non avessi bisogno
di vedermi
perché sono luce
anche nella cecità
della lontananza

Melodia
di accompagnamento
Musica
che non si spegne
in una realtà
che svapora
Non dovrai cercarmi
ma guardare avanti
seguendo il ritmo
del mio cuore

Dove

Ferma
posteggiata lungo la strada
conquistata attraverso i tormenti
ho attitudine
alla felicità

Sopra
traguardi di cielo
le nuvole grigie
misurano
l’azzurro denso
della infinità

Pronta
a ripartire per un dove
la cui speranza è la mia
responsabilità

sollevo il velo della
indifferenza
lo sguardo è oltre
nella difformità

Bisogna essere
diversi
a noi contrari
per completarci
stringerci le mani
camminare insieme
eppure
in libertà

Tutto è accentato
esagerato determinato
spudorato contingentato

non c’è più tempo
per l’eternità

Accoglienza

Accolgo nell’incontro
il mio diverso
dei limiti non faccio
differenza
Se spero in lui
è perché accetti
i miei
Condivisi gli intenti
la stessa meta
un tratto
lo potremo   fare   insieme

Trema il mio ventre
e tutto il mio pensiero se
accolgo dolce lui
che vuole regalarmi
un po’ di sé

Accolgo il dolore
e l’allegria
li mescolo
nel crogiuolo
della vita

Mi allontano
da chi con prepotenza
dichiarata o subdola,
abusiva,
mi vuole   fare   male
Muta e invisibile
si fa per sempre a lui

la mia presenza

Fusioni

Si uniscono il mare
e il cielo
nell’ultimo orizzonte
… o solo appare?

Si tuffa il sole
nella curva del mondo
… annegherà?

Si infrangono onde-pensieri
sulla battigia
della Conoscenza
… succhieranno annullandosi
l’intimo Sapere?

Raggiunge la rigida ragione
la Verità
… o se ne allontanerà
lasciando gelido vuoto inerme
il cuore?

Ti ho sfiorato
mi hai penetrata
nella carne dell’anima
non mi hai lacerata
ma rispettata
Integro dentro di me
Sono… Una

e non frammenti

La mia Pasha

Vorrei risorgere
dal pozzo
di buia cecità
fra pareti di crosta e falsità
dove si è perso
il senso del rispetto
l’umana dignità

E’ rimasta la buccia della Festa
divertirsi e mangiare con voracità
l’agnello sacrificale, la colomba che vola
in mezzo alle comodità
E poi di più,
calpestare e uccidere
corpi pensieri azioni
trascinati dal – così si fa –
per gridare la voce
del potere
dell’autorità

Chi mi darà una mano
tendendomi il suo braccio?
La mancanza di indifferenza?
La responsabilità?

Vorrei passare oltre
uscire dall’uovo dell’egoismo
dalle mie necessità
e pigolare libero
mentre ingoio l’agro-dolce
delle difficoltà
opporre resistenza alle

nostre stesse atrocità

Per vivere

Per vivere bisogna
non aver paura
di morire

Lontana divisa separata
si rintana nell’antro putrido dell’Io
sola sorda cieca
la paura
Reagisce con violenza
Si priva del contatto
Si esclude dalla gioia
Affoga nel dolore

Incede nell’aria aperta e profumata
con passi lunghi e indomiti
il coraggio
E’ liquido di lacrime
non pensa a trattenerle, brillano con lui
né mai se ne vergogna
Di esse nutre l’animo commosso
Nel desiderio ardito, avvicinarsi
Nella curiosità vivida, raggiungersi
Nella felicità più intensa, finalmente unirsi

Sul cerchio verticale della vita
arrampicare con mani piedi denti
le salite
precipitare rotolando
le discese
permettersi più volte di morire
E rinnovati, non arrestarsi mai
sicuri di voler rinascere
per vivere

Ricchezza

Ricchezza non è
ciò che abbiamo ricevuto
preso, estorto, rubato
e gelosamente custodito
avidamente conservato
Assetati del denaro
e del potere
corriamo nel deserto
dei valori. Non curanti
ciechi calpestiamo
l’Altro
i suoi bisogni
i suoi dolori

Ricchezza è
ciò che abbiamo dato
costruito, seminato
E’ dono
mattone
germoglio
il tesoro che nutre
le azioni
Trasforma i minuti, le ore, i giorni
la vita
in luminosa speranza
unica gioia
variegati colori

Se, mai

Se mai riavessi
il mio volto levigato di fanciulla
il bello aspetto, il muscolo scattante
non vorrei indietro
di quella età
timori e colpe
angosce e insicurezze
che hanno ritmato
lacerato i giorni
degli anni – spensierati? –
dell’età – più bella? –
A volte, sciupati
torturati, passati ad ubbidire
e a subire
ad ingaggiar doveri
a celare nei silenzi frustrazioni
inadeguata ai compiti assegnati
a vergognarmi di non saper – chi sono –

Se mai riavessi
quella amata
perché sofferta gioventù
Direi – No, grazie –
Voto per questa età
quella dai trenta in su
e poi più su
che mi riporta giù
a calpestar sentieri
cercando luce nell’intricata giungla
a camminare in basso a testa alta
ora che vado orgogliosa
di quanto sia sapiente
aver coraggio:
accettare con pietà
la mia pochezza

Notte tropicale

Rincorre caldo il vento
il grido acuto e disperato
dei galli alla campagna
Impetuoso soffio di strazianti urla
rimesta generazioni di disgrazie
sofferenze e malattie
che traversano di sterrate calles
il denso buio
Tende al crimine
il braccio, la miseria
Sfinito l’ubriaco biascicando
sbraita, della notte
l’ultima bestemmia
Mentre invoca la setta
un canto-nenia
per addolcire un dio castigatore

Assolo di violino 
nell’orchestra di ore
piccole in crescendo
il vagito di un bimbo
a dir  - Ci sono! -.

Per non tenerlo desto
si acquieta tutto intorno
Un attimo. Un barlume

E spunta il sole

Fango

Gonfia di acqua
si stacca
scivola vorticosa
la montagna
Invade la valle
riempie le vene
e le strade
di piccole città

Lungo il cammino
di inarrestabile violenza
raccoglie detriti e impurità
della natura umana
che attraversa

Molle, pareggia voragini
colma tortuosi anfratti
Sfiorata dal vento disordinato
della speculazione
e della negligenza
si fa grigia, dura
Piattaforma impenetrabile
copre corpi e responsabilità

Valanga di pensieri e azioni
distruttivi, melmosi
polverizzano vite
affossano speranze
generano dolore

Cerco il respiro
Opprime il petto

quel cuore di fango

Lo smog dell'anima

La notte tropicale scendeva rapidamente. Attraverso il finestrino alla sua sinistra, nella penombra, passava veloce il paesaggio. Chiara la luna la guardava dall’alto, elegante barchetta navigava il cielo. Fendeva sottile e sicura l’azzurro profondo. Sembrava dirle, dissipando gli ultimi dubbi, che la strada era quella giusta. La sollecitava a seguirla. Non veli di nubi, esse arruffate di grigio e d’argento si perdevano dietro lo sguardo proiettato già verso il traguardo successivo dell’orizzonte visivo. Eppure erano apparse belle nella loro inquietudine, nel loro mutare. Il nuovo nasce dal continuo divenire che risalendo il tormento solleva le ombre, rasserena il cammino e conduce finalmente nel vero.
La Verità si riconosce, è brillante di luce che contagia il cuore. Proprio come ora si presentava ai suoi occhi di europea quella luna coraggiosa, non persa ma ritrovata in un punto alto del cerchio più ampio della terra. Mostrava tutta se stessa senza falsità e ipocrisia. Pur nella sua esile figuretta appariva determinata, continuava ad invitarla a proseguire al suo fianco. Calda la mano che sembrava tendere alla donna emozionata che la ammirava affascinata e stupita dalla vettura.
All’orizzonte altre nuvole, agitate, minacciavano di farla scomparire, la luna; ma lei, forte indomita quasi provocatoria, si limitava ad accenderle soavemente di trasparenti strisce d’oro, annullando il pericolo. A loro, le nuvole, non restava altro che farle da gonna, come succede alle difficoltà, e misurare la distanza dell’universo che altrimenti si presenta solo come un buco nero avvolto nel mistero.

La vegetazione, sempre più buia, scorreva sui due lati.
Nel carro la donna europea sedeva accanto al frate missionario che guidava.
Ruotando lo sguardo in alto a destra si accorse che quel sorriso di labbra fini nel cielo equatoriale, che ancora una volta l’aveva accolta amico e splendente appena scesa all’aeroporto del povero paese del Centro America, era accompagnato da una fitta moltitudine di stelle di ogni grandezza e varia intensità di luce.
In questa parte della terra la luna, ponendosi in orizzontale, quando cresce o decresce non ha possibilità di mentire, è solo meravigliosamente quello che è, quello che appare.
Il firmamento sprigiona la ricchezza e la fantasia degli astri ammantandoli di un blu miracolo di colori nella tavolozza del più esperto dei pittori. Non ha nulla di oscuro, traspira trasparenza dalla sua densità. Non è contaminato dalle esalazioni delle industrie e dai fumi dell’eccessivo traffico dei mezzi dei quali è sprovvisto il mondo a sud. Conferma di tanta povertà, qui non ci sono industrie. Di gas di scarico, che rendono spessa irrespirabile l’aria, ne è ricco invece il mondo a nord, i cui cieli sono ormai tutti uguali e lattigginosi.
Il tetto piatto dell’uniformarsi.
Rispecchia físicamente l′ispessimento della condensa, o quello che potremmo chiamare lo smog... dell’anima, sprigionato dalle macchine umane il cui combustibile è una pozione liquida degli umori dell’egoismo e della paura alimentati dal vizio del potere e dalla passione per il denaro.
Anime-motori, dai perpetui lamenti e borbottii per una vita disgraziata, raccontano alle generazioni future che lì, in quel vizio e in quella passione, stia la felicità.
Esse viaggiano sull’esempio marcio e malato delle anime-politica di governanti e di preposti alle pubbliche amministrazioni, bianchi rossi e verdi. In fondo tutti sempre grigi e tristi, appesi (come i loro volti) ai voti che chiedono agli elettori con voce grossa facendo false promesse.
Per non parlare poi dell’esempio che hanno dato e danno tutte le religioni.
In nome di un dio vendicativo hanno generato e generano lotte guerre genocidi.
Gesù si è fatto uccidere per realizzare la sua rivoluzione.
Per essa non ha ucciso, ha amato. Ma uccidere è più comodo di amare.
La Verità è semplice, sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vederla.

La donna europea, nella sua piccola individuale rivoluzione, ma la più grande, che ciascuno possa fare, l’unica che gli sia, giustamente, permessa, faticosamente e non senza sofferenza e difficoltà, cercava di cambiare se stessa.
L’obiettivo, scegliere e non subire. Essere libera.
Con tutti i suoi limiti e difetti, porgeva il suo mattone, alla pari e senza discriminazioni, per unirlo ad altri con la mano tesa come la sua, alla pari e senza discriminazioni, per la costruzione di un mondo più giusto e migliore. Non poteva aspettarsi che su quel cammino ci fossero tutti ma, alcuni, sì.
Andava alla ricerca delle differenze, del contrario, per trovare l’unità.
Aveva imparato dall’architettura che il pieno non esiste se non c’è il vuoto, solo dalla loro armonia nasce il bello. Il tutto si misura con il nulla.
Niente esiste se non c’è il suo contrario.
La natura forse lo insegna. L’esempio più semplice?
Uomo e donna, convessità  e concavità che si penetrano, e non che si scontrano, per partecipare all’UNO nel godimento dei corpi. La stessa cosa  può avvenire per lo spirito e per le azioni in gesti comuni?
Il suo progetto di vita, ognuno ne ha uno purché riesca a riconoscerlo, era l’Incontro con l’altro, il nuovo. Il nuovo IO dentro di noi e il nuovo fuori, il fratello.
Per andarlo a cercare, più volte l’anno, ingoiava, in andata e ritorno, l’acqua salata e pesante dell’oceano, ma la bracciata era lieve. Il mare nel quale si immergeva, canale fra due mondi diversi sempre la accoglieva, la sospingeva con la corrente dell’amore.

Come facente parte del mondo a nord, dono immeritato, non richiesto e non conquistato, era più forte perché più fortunata. Come tale più responsabile.
Laica e non praticante, chiedendosi se c’era e dove stava la sua fede, ma considerando il Vangelo il più grande libro d’amore fosse mai stato scritto, nel piccolo paese del Centro America la domenica andava a Messa. La chiesa era affollata, si emozionava a tutta quell’energia che sprigionavano gli ultimi e le loro miserie. Chiamavano a raccolta chi aveva occhi per vedere e orecchie per sentire. Se Dio esisteva, si diceva ogni volta, deve essere lì, in quel basso. Le era accanto l’anziano campesino dagli arrossati occhi bruni e dal volto segnato dal sole e dal vento tropicale, nel Padre Nostro le prendeva stretta la mano nella sua. Una catena di mani dove sentiva scorrere qualcosa, di indecifrabile. Guardava le loro mani intrecciate, mentre gli altri pregavano. Concentrata su quel nero ruvido che conteneva il bianco liscio della sua.
Così diverse, avevano bisogno l’una dell’altra per sentire scorrere, vera e più giusta, la vita?
Come facente parte del mondo al femminile, era più forte perché più fortunata.
Aveva la possibilità di portare nel suo ventre la vita e darla alla luce. Questo dono immeritato, non richiesto e non conquistato, la rendeva più responsabile.
L’uomo, chiunque esso fosse nelle varie tappe dell’esistenza, se lo voleva, le prendeva stretta la mano nella sua, un tratto di strada insieme per l’obiettivo comune. Guardava allora le loro mani intrecciate, quella più grande e forte conteneva la sua più sottile e determinata, forse più consapevole.
Così diverse, avevano bisogno l’una dell’altra per costruire altro nel mondo, dimenticando egoismo e paura?

Ora, in quella splendente notte tropicale, a lato di chi aveva fatto una scelta coraggiosa per la vita, la donna europea, nella vettura che sobbalzava alle buche e affondava nel fango, portava dall’aldilà dell’oceano con sé, pieno il cuore mai sazio e pronto a svuotarsi per riempirsi di nuovo, il ²calco², come lui spesso le diceva, del ²suo ragazzo² di ieri oggi domani.
In una totale commistione, risultato del sentirsi tanto simili fino anche nelle differenze che li completavano, viaggiavano l’uno nell’altro i corpi i pensieri le pur diverse attività le mete. Era l’amore sognato da tutti, di sempre per sempre, ora vissuto con una unica presenza nello spazio dell’oltre per l’oltre.
Era una donna fortunata per ciò che aveva dentro, per ciò che avrebbe voluto realizzare fuori.
Avrebbe potuto finalmente guardare dritto il cielo, quel cielo senza veli che la invitava, con la sua luce chiara di giorno e di notte sul mondo, a volgere gli occhi in basso, agli ultimi.
Si sarebbe lasciata bruciare la pelle dal sole ardente, senza coprirsi.
Si sarebbe bagnata sotto la pioggia insistente, senza ripararsi.
Si sarebbe trasformata nel megafono del silenzio di chi non ha voce e di chi, senza dimenticare di rispettare il suo riserbo, nella sua missione, si dona con umiltà al più debole restituendogli dignità.
Inizio di una nuova duratura felicità, si sarebbe liberata dal puzzo putrido dello
smog dell’anima.

El borracho

Il corpo grigio e magro giaceva per terra, simile ad un misero pupazzo inanimato. Le sue membra rigide sembravano essere infilate, fragili e sottili segmenti di una collana umana, abbandonata, dove la dignità aveva perduto il suo spazio e la sua dimora.
Un paio di braghe luride sbucavano sotto i brandelli di una maglietta firmata Armani. Era stata regalata in uno slancio di generosità, una volta consumata nel mondo ricco.
Sul cemento di quella osteria buia all’equatore, disordinati gli arti.
Essi battevano al ritmo dell’urlo disperato che cantava se stesso, dalle labbra di una bocca bavosa e sgangherata che puzzava di guaro e povertà. Ultimi fuochi di artificio della lotta per la sopravvivenza.
Un combattimento perso quando resta solo l’attesa della fine.
Un uomo grasso e laido, rappresentante della buona e giusta società, lo sollevò per una mano e un piede: uno straccio appeso con due mollette sul filo teso della ingiustizia che avvolge il mondo.
Lo trascinò. Lo lasciò inerme nel fango davanti a quel Parque Central e il suo giardino, proprio di fronte al Municipio.
Uno scroscio d’acqua si accanì.
Quella pioggia tropicale e rumorosa che non lava le responsabilità della ferocia silenziosa di questa Umanità indifferente, che lo guarda distante, affacciata al balcone del voyerismo delle miserie, sguazzare, al di là dell’oceano, nell’acqua dei rifiuti.
Lui, la sua colpa.
E’ così falsa, così inutile la pietà.
Ci condanna, senza appello, l’ipocrisia delle parole sbandierate dalle comodità. Gli agi subdolamente corrompono i pensieri e ci rendono loro schiavi.
E’ solo un alibi? O siamo proprio sicuri che non si possa FARE niente, noi, per lui… per quel mondo…per quella Umanità innocente e dimenticata?

Le ombre lunghe lentamente assorbivano le chiome scure degli alberi del piccolo parco, i tetti bassi delle case, e giù fino a lui si sdraiavano lievi al suolo facendogli da coperta. Univano la loro umidità a quella della pioggia appena caduta e alla condensa che esalava nebbiosa dalla terra calda.
Echi, fantasmi delle lacrime di generazioni versate per secoli che alzandosi riempivano il vuoto pesante del buio. Avevano lasciato, vuoti secchi arrossati, gli occhi di coloro che avrebbero dovuto ancora attraversare la vita. Di lacrime non ce ne erano più per il dolore, ma neanche per la commozione o per la gioia. Impermeabili gli sguardi.
I galli avevano già intonato le ormai note grida strazianti che chiamavano da fuori a dentro. Dal campo alle poche quadras del pueblito del Centro America, dalle azioni all’anima, e di ritorno, per farsi eterne domande e darsi inconsistenti risposte. L’invito all’allerta nei confronti delle difficoltà e la fatica di vivere, l’oscurità non le avrebbe potute nascondere.
Transitavano gli abitanti della notte: altri due ubriachi che barcollando raccattavano el compañero… bambini vagabondi… cani randagi.
Tutti uguali, stanchi e sfiduciati.
Chissà dove andavano, allontanandosi con passo lento e capo ciondolante.
Sono scomparsi dentro la parete nera, l’orizzonte dell’oltre che bucavano con le loro figure stracciate.

Dove ha dimora la felicità?

Nel buio transitavano rare le vetture, traballanti sull'incerto fondo stradale.
L’abitazione, come sempre bassa nei paesi del Centro America, affacciava sulla strada.
Finestre dagli infissi di vetro, a strisce basculanti, erano protette dall’esterno con sottili grate, dal disegno a larghe volute, dipinte di nero. Vincendo la tenue resistenza delle tende di stoffa leggera, i lampi dei fari, storcendo obliquamente l’ombra del ferro, illuminavano in bagliori arabescati il letto, dove lei stava dormendo in un bagno di sudore. A niente, o a poco, serviva il ventilatore acceso tutta la notte. Neanche in quelle ore il caldo e l’umidità riuscivano ad abbassarsi e arrecare il sollievo di una agognata pausa.
Il passaggio improvviso e rumoroso dei motori (la paura), le luci a tratti degli abbaglianti (l’attesa), la base di sottofondo uguale e insistente dell’agitarsi delle pale (il dolore), attraversavano i suoi sogni inquieti. Lì trovavano fertile terreno le nuove piantagioni di immagini create dalla mente e da occhi retroflessi nell‘abisso dell‘Io. Quando, poi, vi s’inseriva l’arrivo di un acquazzone improvviso, così frequente nel tropico, insopportabile si faceva la tormenta dell’anima. I pensieri, appena formulati, venivano scossi dal vento che percorreva a ritmo impazzito i rami delle ancora giovani palme.
La concretezza del vissuto e il subconscio che affiorava dal mondo onirico, una unica pellicola. L’una abbracciata nell’altro, esprimevano il meglio di sé, come sempre succede nella perfetta unione. Svelavano verità altrimenti nascoste e inconoscibili.
La donna europea aveva visitato, durante il giorno appena trascorso, il barrio chiamato “El Pantanal” nella periferia di Granada, Nicaragua. Non era certo a corto di luoghi dove proporre la sua immaginazione, ma lì la realtà superava ogni fantasia. Aveva filmato con la telecamera, recentemente acquistata, prima della partenza, il documento che attestava quella infinita miseria. Le baracche, circa settecento, sbilenche, erano addossate le une alle altre quasi a cercare sostegno nella comune disgrazia. Di terra e fango i sentieri dissestati, entravano dentro quelle povere capanne a fare loro da pavimento. I teli di plastica che, fissati ad esili pali nei quattro angoli, fungevano da pareti, erano sbattuti dal vento che sollevava polvere e sporcizia, vanificava speranze. Bambini mezzi nudi mostravano i loro ventri gonfi dalla denutrizione. Un inferno immobile, dove regnava il silenzio, il caldo insopportabile e l’attesa di una infinità di persone, sedute su sgangherate sedie di plastica, a non fare nulla. Erano stati proprio quegli sguardi nel vuoto della miseria che l’avevano maggiormente colpita. Ma in quel torpore dei sensi, qualcuno era sveglio e non rinunciava alla sua dignità. Francisco Ramirez Gonzales, così si chiamava il campesino, appena lei si era avvicinata si era ritirato rapidamente. Aveva indossato una camicia pulita, appena stirata, e si era messo il sombrero nuovo. Solo allora, dalla soglia della sua capanna, l’aveva invitata ad entrare. Le aveva detto: - Fotografa pure, fai  vedere loro come viviamo! -.

Nel mondo onirico di quella notte tropicale, era precipitata dall’alto, come peso morto, sul duro impiantito. Solo tre quattro passi, per rispondere alla sua voce che stava chiamando la parte di se stessa,quella rinnovata, aveva percorso un ballatoio inclinato verso il vuoto e senza ringhiera di protezione, che correva su un lato all’interno di un ampio ambiente, nuovo, a doppia altezza, minimalista, vuoto, da arredare. Un progetto da completare. Non era morta, ma soccorsa e portata da lei stessa a cavaceci, aveva visto da spettatrice i due corpi legati insieme da leggeri drappi svolazzanti, allontanarsi. In quella strana composizione che le vedeva unite, salivano faticosamente una scala per raggiungere il più vicino ospedale.
Nel sogno, avevano preso consistenza: la paura per accorgersi della sua inadeguatezza di fronte  a tanta sofferenza; l’attesa di costruire unita ad altri per il bene, nell’offerta del suo misero mattone; il dolore che attraversava tante vite umane dimenticate, nella parte di mondo più sfruttata e abbandonata dall‘indifferenza.
Ancora ad occhi chiusi, in quello spazio, limbo tra sonno e veglia, con la eco del sogno che risuonava ancora dentro, si era imposta urgente una domanda: - Dove ha dimora la felicità? -.
Sicuramente non in quel mondo a sud senza Giustizia, dove la privazione di tutto toglieva a troppi, per fortuna non a tutti, ogni volontà di reazione per il proprio riscatto. Immersi in una povertà culturale che li disimpegnava, forse era così che qualcuno li voleva. Ma il mondo a nord era ugualmente infelice, nell’anima come nel corpo. Lamentoso, sempre scontento e insoddisfatto, annoiato e con la pancia piena, pur se circondato e ricoperto di beni materiali e di quanto si possa immaginare di desiderare per se stessi, ma al quale non c‘è mai fine.

Forse doveva riandare con la mente a quello stesso pomeriggio. Li aveva avuti davanti e non poteva, ora, dimenticarli. Sì, si facevano largo nella distesa dell’infelicità che avvolge la terra, sguardi luminosi, proiettati fuori dal proprio egoismo, accoglienti, non timorosi dell’Altro. Appartenevano a coloro che, anche essi bisognosi di aiuto, aiutavano chi si era attardato nel cammino della Speranza. “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” (Voltaire).
Avevano organizzato una festa per i bambini di “El Pantanal”, in occasione dell’inaugurazione della donazione di uno spazio sociale. Canti e balli folcloristici. Musica e giochi, con tanto di  pentola che pendeva appesa ad una certa altezza, sostenuta da una corda che scorreva sul ramo di un albero. Il grande involucro manovrato sapientemente, quando si abbassava, una volta colpito con lunghi bastoni, pioveva caramelle e cioccolate per la gioia dei più piccoli. Avevano raccolto con una colletta fra poveri, quanto necessario per offrire un fresco e una tortilla a tutti. Sparito il cupo silenzio, allegro il ridere e il vociare.
In quel mondo collettivo, nel calore dell’avvicinarsi, nei valori della semplicità e della generosità, nella capacità di condividere e comunicare che circolava come spirito vivo.… lì stava la felicità.

Un cuore in condominio

Un battito più forte degli altri aveva preannunciato l’imminente arrivo.
A quella singolare extrasistole aveva fatto eco la cassa toracica, quando Lui era apparso sulla grande apertura a doppia altezza all’interno dell'imponente palazzo.
Non era solo. Insieme alle autorità che lo avevano invitato, incedeva lento e straniero.
Il corpo abbandonato dentro i vestiti, si lasciava condurre. La borsa che pendeva dal braccio sinistro, salda nella mano, portava il peso degli affanni degli uomini. Lui sembrava incaricarsene. Era assorto in un mondo altro che, ora, per uno scherzo del Caso, lo vedeva proiettato a raggiungere il lungo e mastodontico tavolo in legno intagliato, posto al centro della parete di quella Sala degli Specchi dove il pubblico lo attendeva in sommesso brusio. L'ampio e prestigioso spazio, non tradendo il suo nome, rifletteva e moltiplicava lo stato d'animo di Lui che Lei aveva immediatamente introitato fra la piega del cuore e il lembo della mente.
Lo aveva riconosciuto.
Quanto era durata quell'attesa? Aveva percorso tutta la vita per arrivare a quel punto, in quell'istante nel quale tutto era meravigliosamente successo, senza preavviso e ancora privo di parole, di intrecciarsi di sguardi, di sfiorarsi di corpi. Lui le apparteneva nella luce dell'intimità più profonda alla quale si giunge camminando decisi nel buio.
Durante tutta la conferenza erano, poi, state le parole con le quali commentava altri, a riflettere lo spazio dell'anima di Lui. Su di esse, ignaro, galoppava nei meandri dell'interiorità di Lei, del conosciuto e dell'inconoscibile.

Perché tutto è in noi.

Corrispondersi. Erano bastati pochi battiti perché Lui, si accorgesse. Senza esitazione né vergogna, le aveva mostrato la parte più nascosta di sé. Nuda la ferita che portava da sempre sul cuore. Lei vi si era affacciata scoprendone la voragine. Senza spaventarsi cominciò ad accarezzarlo e baciarlo, proprio lì. Per ricomporne le pareti frastagliate.
Anche i corpi ne furono contagiati. Non avrebbero resistito oltre, ad una lontananza protratta tanto a lungo, anche se inconsapevole. Si erano allora uniti, confusi in teneri amplessi, dove la gioia e il dolore, in armonia, avevano liquefatto le membra. Ogni centimetro della carne di Lei batteva il desiderio. Ora una musica melodiosa, una nenia languida la faceva dondolare su di lui; ora un ritmo incalzante, di strumenti a percussione, sconvolgeva gli arti, allacciava le menti.
Lei tremava nell’amore. Per quel ttt...ttt...ttt del corpo Lui la battezzò Titti.
Passarono oltre un milione e mezzo di battiti (più di tre anni) dell'orologio del cuore durante i quali Lui le fece visitare i luoghi, i pensieri, le attese, dove Lei era sempre stata. Sconosciuti l’inizio e la fine di quella presenza. Dando tempo al tempo, tutte le cose dell'Universo finiranno per incontrarsi le une con le altre(José Saramago).


Titti aveva consumato gli ultimi cinquecentomila battiti (circa un anno) di quel tempo interiore per cominciare a capire ciò che per Lui era difficile ammettere con se stesso.
Era stato un processo, una indagine complessa nei recessi più riposti dell’anima dove Lei lo aveva invitato ad addentrarsi. Insinuati come tarlo silenzioso che corrode, in angoli  inesplorati, abitavano, atavici, i sensi di colpa, le scelte che Lui non aveva avuto mai il coraggio di affrontare, l’obbligo dei ruoli istituzionali, l’ipocrisia dei benpensanti, il senso cattolico del peccato anche per chi apparentemente si dichiarava laico, lontano da ogni religione. Quella mancanza a priori di libertà, di una libertà interiore non fisica, che Lui era ben lontano dal raggiungere, anzi contro la quale lottava, cominciò a farli soffrire.
Lei non aveva né chiesto, né preteso nulla. Imprescindibile la presenza attiva di Lui nei rapporti con la famiglia, che Lei comprendeva e rispettava. Lo aiutava a superare le difficoltà logistiche al fine di non arrecare con sospetti dolore ad altri.
Lui era sempre più spaventato di come Lei gli fosse entrata dentro.
Fino a quando una mattina, ore otto, pensò di trovare una comoda soluzione al lacerante conflitto interiore dal quale era continuamente afflitto. Seduto sulla poltrona dello spogliatoio della casa di Lei, mentre si infilava i calzini, disse perentorio:
- Amo mia moglie. Vivrò con lei fino alla fine dei miei giorni -.
I ruoli, in essi gli affetti e i doveri, non si discutevano, ma quell’amore riciclato dalla coscienza arrivava a sproposito. Un pasticcio di sentimenti.

A nulla valsero le mille telefonate di Lui, il desiderio di vederla e amarla ancora, la sua disperazione, il cercare attenuanti e compromessi. Non poteva più prescindere da Lei.
Ma lo spazio del cuore nel quale si erano incontrati rifiutava di essere diviso con altri.
Prima di farsi più male Titti uscì rapida da quel condominio troppo affollato.
Ancora un battito, a vuoto. Oscurati i ricordi.

Il vento turbinoso di quelle parole che pericolosamente, trasformate in incubo, la rincorrevano, fece sbattere dietro le spalle, fragorosamente, il portone del quale, dentro di sé, non avrebbe mai più ritrovato la chiave.