Dalla Prefazione di Donato Di Stasi

In un recitativo fluido Luciana Vasile esce dal giro delle solite cose per andare incontro all’essenzialità del discorso lirico, ne deriva una continuità di materia viva, sottratta alla transitorietà nullificante e salvata nel respiro semplice delle esperienze che contano.
La libertà del sé allinea scansioni interiori di natura sentimentale e svolgimenti di giorni all’altro capo del mondo, dove la sillabazione deve farsi più pronunciata, più resistente alla disperazione, all’assenza di libertà. Incardinata ai suoi paesaggi preziosi, l’autrice costruisce architetture ritmiche e melodiche convincenti, capaci di trattenere la molta luce e la soverchia umanità che lasciano dopo essere transitati nella nostra mente, dopo essersi allontanati dalla nostra vista: i monemi verbali con cui si chiudono i versi creano prospettive a volte magiche, per verniciare la condizione aspra delle cose, la dimensione grumosa, tutta graffi e sobbalzi, dell’esistere.

Le poesie di Luciana Vasile rappresentano un susseguirsi di scorrevoli strofe, di freschi ritmi, accentuati dall’irregolarità dei versi e delle assonanze. La scrittura sembra ricordare le pareti interne e esterne di certe chiese di montagna, di tinta chiarissima e di solidissime fondamenta: le universe funzioni dello spirito permeano ogni pensabile forma dei testi, ogni latèbra lessicale, ogni interminabile reverie. L’autrice usa per le sue composizioni buoni materiali, di qualità, orecchiabili, in grado di sfiorare e destare la coscienza: mi sembra una stilista attenta ai colori, agli effetti del paesaggio, alle metafore sentimentali, con tutto questo esprime il male del mondo, ma anche il proprio vivere a capofitto nella speranza, il proprio immergersi senza sconti nella vita, con i propri rovesciamenti di valori, rispetto ai disvalori circolanti, con le proprie traiettorie di fuga, di crolli evitati, di utopie mai seppellite.